Note storiche sulla lotta alla malaria in Italia

La storia della malaria e del suo controllo sono intimamente legate al nostro Paese. Presente almeno dal I secolo dopo Cristo, per oltre mille anni fu creduta una delle nefaste conseguenze delle “male arie” scaturite dalla aree palustri, soprattutto costiere, della penisola. Di conseguenza, molti studiosi si dedicarono a cercare di comprendere e risolvere l’immane problema.
Giovanni Maria Lancisi, anatomista, patologo e clinico romano del XVIII secolo, avendo osservato che gli insetti più frequenti nelle paludi pontine erano le zanzare, nel 1716 nel suo “De noxis paludum effluvis eoumque remediis” avanzò l’ipotesi che molto probabilmente alcuni "esseri animati" potessero passare dall’insetto al sangue dell’uomo. Tali "esseri" furono identificati solo nel 1880 da Charles Louis Alphonse Laveran, medico militare francese, e definiti come “plasmodi” dagli italiani Ettore Marchiafava e Angelo Celli.
Fu Patrick Manson, nel 1894, a ipotizzare definitivamente che il plasmodio potesse essere trasmesso dalle zanzare ed il comasco Giovanni Battista Grassi, quattro anni più tardi, identificò il vettore nell’Anopheles e ne ottenne la prima trasmissione sperimentale. I suoi studi su questo argomento iniziarono nel 1898 quando cominciò ad occuparsi della malaria degli uccelli, scoprendo i diversi stadi del parassita. Soltanto due anni dopo Grassi passò alla malaria umana, molto colpito dalle condizioni terribili della campagna romana, in cui la malaria aveva particolare intensità e colpiva soprattutto i ragazzi. Egli comprese subito che la malattia era introdotta all'interno del corpo umano da vettori esterni, sicuramente insetti alati. Cominciò quindi a impegnarsi personalmente nella cattura di diverse specie di zanzare presenti nelle paludi della campagna intorno a Fiumicino. Inoltre, cominciò a intervistare i contadini che vivevano in quelle zone. Essi raccontavano di essere molestati soprattutto da un tipo di zanzara piuttosto grande, con ali grigie e macchiate, che faceva la sua comparsa al tramonto fino a tutta la notte. Grassi identificò questo tipo di zanzara con Anopheles maculipennis. La fase successiva fu quella di studiare e allevare le zanzare nel proprio laboratorio, fin dallo stadio larvale, per accertarsi che non potessero essere infette. In questa fase, molto importante fu la collaborazione di un certo sig. Sola, che si prestò quale cavia umana per la sperimentazione di Grassi. Egli si offrì volontariamente per farsi pungere ogni sera da una specie di zanzara diversa senza mai mostrare i segni della malattia, finché una sera Grassi lo fece pungere da una zanzara anofele che aveva già punto persone malate e dopo alcuni giorni anche il sig. Sola mostrò i sintomi tipici della malaria.
Grassi arrivò quindi a stabilire che non tutte le specie di zanzare erano in grado di trasportare il plasmodio della malaria, ma solo alcune specie, che, per la malaria umana appartengono tutte al genere Anopheles. Grassi era inoltre riuscito a scoprire il ciclo di trasmissione della malattia. Le sue ricerche continuarono permettendogli di scoprire al microscopio anche nello stomaco della zanzara anofele i diversi stadi di maturazione del plasmodio.
Finalmente, a conclusione delle sue ricerche e delle sue scoperte, Grassi pubblicò, nel 1900, il volume intitolato "Studi di uno zoologo sulla malaria", che riassumeva tutti i procedimenti, gli studi e le conclusioni degli anni trascorsi ad occuparsi della zanzara anofele e del plasmodio.

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Disegno originale di G.B. Grassi sul ciclo della malaria trasmessa dalla zanzara Anopheles

Nel frattempo, un altro italiano, il bresciano Camillo Golgi tra il 1885 e il 1889 diede un contributo sostanziale alla soluzione del problema malaria, scoprendo il ciclo evolutivo del parassita e la correlazione tra "segmentazione" (termine usato dal Golgi) del plasmodio e accesso febbrile, svelando così la causa dell'intermittenza delle febbri malariche. Poi, il Golgi scoprì due diversi tipi di ciclo di sviluppo del parassita, che si riproduce in 48 ore nella febbre terzana e in 72 ore nella febbre quartana (ciclo di Golgi) riconducendoli a due diverse specie di plasmodio. Finalmente, nel 1889, riesce a dimostrare che gli accessi febbrili sono causati dai merozoiti liberati nel circolo sanguigno dalla rottura dei globuli rossi. Il contributo degli studi del Golgi fu decisivo anche dal punto di vista clinico, poiché, da allora, con un semplice esame del sangue, si poté diagnosticare la specie di parassita.
Grazie alle scoperte di quegli anni pionieristici iniziarono a moltiplicarsi in tutto il mondo le iniziative dirette al controllo del vettore, agendo sul suo ambiente di sviluppo o direttamente sui suoi differenti stadi. La prima campagna di profilassi fu realizzata in Brasile da Carlos Chagas nel 1905.

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Luigi Torelli, Carta della malaria dell’Italia (Florence: 1882)

In Italia, all’inizio del XX secolo, le aree malariche si estendevano per quasi 7 milioni di ettari e la malaria interessava ben 2.635 comuni (pari al 3,7% dell’intero Paese). In tutte le stagioni era predominante il Plasmodium vivax, soprattutto nelle regioni del nord. Meno frequente, ma comunque presente in ogni stagione, il P. malariae. Il P. falciparum era, invece, presente sul territorio in estate e in autunno.
I vettori principali erano An. labranchiae, soprattutto nelle Isole e nell’Italia centrale e meridionale, An. sacharovi diffusa al nord, in Sardegna, Puglia e Basilicata e An. superpictus, limitata al Sud. La Sardegna e la Sicilia erano le regioni più colpite e vi si registrava il 70% dei casi nazionali. Le regioni a media endemicità comprendevano la Puglia, la Basilicata, la Calabria, la Campania e il Lazio, con il 20% delle denunce. Le regioni ipoendemiche erano il Veneto, il litorale della Toscana, l’Abruzzo, la valle e il delta del Po (Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna), con il 10% dei casi nazionali. Il tasso di morbosità, a parte il picco di 970 casi ogni 100.000 abitanti nel 1905, si mantenne tra i 400 e gli 800 casi fino al 1934, quando furono implementate, su larga scala, le misure di profilassi antimalarica.
L’elevato numero delle zone malariche e la pericolosità del fenomeno per la Sanità Pubblica indussero il governo italiano a codificare una legislazione sulla malaria (adottata poi integralmente anche da altri Paesi), avente come duplice finalità l’intervento profilattico e terapeutico, diretto alle persone residenti in zone malariche, e l’intervento sull’ambiente, per abbattere la circolazione ambientale dell’anofele.
In materia fu emanata la “Legge portante disposizioni per diminuire le cause della malaria”, n. 460 del 2 novembre 1901. Essa prevedeva la distribuzione gratuita del chinino ai lavoratori delle zone malariche e la disponibilità dello stesso a prezzi ridotti per tutta la popolazione (chinino di Stato). Il Regio Decreto, n. 111 del 30 marzo 1902, di approvazione del regolamento per l’esecuzione della Legge 2 novembre 1901 n. 460, conteneva le principali disposizioni contro la malaria. Tali norme furono successivamente aggiornate e incluse nel Testo Unico delle Leggi Sanitarie, approvato con Regio Decreto 27 luglio 1934 n. 1265 (artt. 313-329) e attuate con il Regolamento del 28 gennaio 1935 n. 93.
Con le nuove disposizioni si cercò di realizzare un idoneo programma di profilassi diretta, sia mediante la difesa meccanica delle abitazioni sia attraverso l’adozione di specifiche misure di bonifica e di lotta antilarvale. A tal fine furono diffuse Circolari esplicative del nuovo ordinamento sanitario antimalarico a tutti i Prefetti.

chinino

bonifiche

Chinino di Stato e Bonifiche dell'Agro Pontino

Appare opportuno precisare che la maggior parte dei decreti per la dichiarazione di zona di endemia malarica furono redatti in data anteriore alle disposizioni legislative incluse nel T.U. delle leggi sanitarie. Con i successivi decreti, infatti, vennero apportate soltanto aggiunte o modificazioni per quelle zone in cui si riscontravano nuovi focolai endemici. Pertanto, la nuova normativa, siccome già esisteva il cosiddetto "catasto della malaria", si rivolse in particolare all’accertamento delle modificazioni e dei miglioramenti dell’endemia ed al rilevamento delle condizioni locali favorenti la persistenza e la diffusione della malattia, allo scopo di facilitare l’azione profilattica. Vanno ricordate le disposizioni che imponevano ai comuni l’obbligo di assumere l’onere degli interventi antianofelici e che istituirono i Comitati Provinciali Antimalarici. Questi ultimi avevano il compito, in ogni Provincia, di coordinare e favorire le iniziative locali tendenti ad un miglioramento dei servizi assistenziali e profilattici e di collaborare con gli Organi statali e gli altri Enti competenti.
Notevole importanza assunse la trasformazione fondiaria, considerata una necessità di pubblica utilità (Regio Decreto del 20.5.1920), e la bonifica "integrale" (Legge del 2 aprile 1935). Infatti, la nuova legislazione, all’obiettivo della bonifica idraulica, accompagnata dagli interventi antianofelici che le leggi precedenti individuavano quale obiettivo preponderante, affiancava quello della bonifica agricola e del miglioramento fondiario, ossia quel complesso di opere che tendevano a creare nel terreno le condizioni necessarie per essere utilmente coltivato.
Il legislatore, dunque, riteneva che la malaria sarebbe stata definitivamente debellata dalla coltivazione intensiva, unico rimedio in grado di assicurare un risanamento stabile del suolo. Per la realizzazione dei descritti obiettivi fu operata una distinzione tra opere pubbliche, il cui onere di spesa era interamente assunto dallo Stato, e private, per le quali erano previsti contributi vari.
Le denunce per malaria e le connesse morti verificatesi negli anni 1902-1947 mostrarono che una riduzione lenta e graduale della malattia, iniziata con l’emanazione delle prime leggi in materia e interrottasi solo a causa degli eventi bellici, si faceva più rilevante a seguito dell’intervento legislativo e finanziario dello Stato nell’ambito della bonifica integrale. Quest’ultima determinò una diminuzione costante della mortalità per malaria, associata ad una importante riduzione della morbosità.
In molte zone l’infezione malarica si era ridotta, in altre era scomparsa e il numero dei comuni ad endemia malarica passò dai 2.635 del 1922 ai 1.171 del 1941. La malaria tendeva a restare sempre più circoscritta all’Italia meridionale e insulare e le Regioni più colpite erano Calabria, Puglia, Lucania, Sicilia e Sardegna (dove la provincia di Nuoro registrava la più alta morbosità: 422 casi su 100.000 abitanti).
Con la ripresa delle azioni belliche in Italia, nel 1944, cominciò una recrudescenza dell’infezione, che nel biennio 1944-45 raggiunse punte molto elevate.
La malattia non solo s’intensificò nelle Province in cui la malaria era endemica, ma si ripresentò anche laddove era completamente scomparsa, manifestandosi persino in alcune località indenni. Nel 1945 furono registrati 411.602 casi, di cui 50.000 primitivi, 160 perniciosi e 386 decessi. Nel biennio successivo, grazie al miglioramento delle condizioni economiche, alla ripresa del lavoro agricolo e al ripristino dell’ambiente idrogeologico, si notò la tendenza ad una rapida regressione del fenomeno. Tale regressione fu favorita anche dall’uso del DDT (dicloro-difenil-tricloroetano), un insetticida ad azione residuale (aveva la durata dell’intera stagione endemica, da maggio a ottobre), utilizzato per la lotta contro il vettore.
Nel 1945, il territorio delle Paludi Pontine fu scelto per condurre il primo esperimento di campagna antianofelica con impiego del DDT, programmato da Alberto Missiroli. Medico originario di Cervia, si occupò di lotta alla malaria per quasi 40 anni e fu cofondatore, nel 1918, della Scuola di malariologia di Nettuno (con Bartolomeo Gosio), nel 1925 della Stazione Sperimentale per la Lotta Antimalarica (con il medico americano Hackett e l’impulso della Rockfeller Foundation), nel 1934 dell’Istituto di Sanità Pubblica (precursore dell’Istituto Superiore di Sanità) e nel 1946 dell’Ente Regionale per la Lotta Anti-Anofelica in Sardegna. Qui, in soli 5 anni, impiegando sapientemente DDT, piretro e opere di bonifica, la malaria venne praticamente debellata: i casi passarono da 80.000 nel 1944 a 2 casi nel 1951, anno in cui Missiroli scomparve.
I primi risultati del progetto, così eclatanti e immediati, portarono a spendere tutte le energie della lotta antimalarica del Paese nel controllo dell’insetto adulto con DDT. Dal 1946 furono quindi trattate con soluzioni di DDT vaste zone malariche della costa Veneto-Emiliana, dell’Agro Romano, delle provincie di Latina e Frosinone, della Maremma Toscana e varie località della Sicilia.
Nel 1947 ebbe inizio un piano quinquennale di lotta antianofelica, impiegando il DDT su tutto il territorio nazionale ed adottando i seguenti criteri:

  • il primo anno sarebbero stati trattati tutti i manufatti, soggetti all’endemia malarica, lungo la fascia litoranea della Sicilia e del territorio continentale, raggiungendo l’interno al fine di bonificare abitazioni ed altri manufatti situati nelle vallate di fiumi e torrenti, noti focolai anofelici, dove più inficiava la malaria;
  • il secondo anno sarebbero state trattate le località interne, sino a raggiungere le zone ritenute indenni, escludendo i centri abitati con manifestazioni sporadiche di casi di malaria e con focolai anofelici facilmente controllabili attraverso i mezzi antilarvali;
  • dal terzo anno in poi occorreva realizzare la “didittizzazione” di tutte le zone ad endemia apprezzabile attraverso l’esplorazione malariologica, ossia il rilevamento degli indici endemici.

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Trattamenti indoor con DDT

La campagna antimalarica, così condotta, evidenziò ben presto il problema della resistenza al DDT a partire dalle mosche domestiche, che rese necessaria un’attiva ricerca di insetticidi alternativi, agenti per contatto e sempre ad azione residua. Poiché il piano quinquennale 1947-1951 era stato condotto su base sperimentale, senza una precedente pianificazione internazionale, risultò difficile stabilire una data precisa in cui collocare l’interruzione della trasmissione.
Infatti, la malaria può essere presente su un territorio con diverso grado di stabilità. Essa può definirsi stabile quando il vettore è molto efficiente, con elevata capacità a trasmettere l’infezione malarica all’uomo e non si verificano grandi fluttuazioni nell’andamento della malattia nel corso degli anni. Essa è instabile, invece, quando l’intensità della trasmissione è variabile nel corso degli anni.
La malaria stabile è caratterizzata da un vettore molto antropofilo e con un’alta longevità, ben integrato in un habitat le cui condizioni ambientali favoriscono il rapido ciclo sporogonico e un lungo periodo di trasmissione dell’infezione. L’efficienza del vettore nella trasmissione dell’infezione e la sua alta longevità fanno sì che la densità anofelica sul territorio sia bassa. Altra caratteristica della malaria stabile è la mancanza di rilevante fluttuazione nell’incidenza della malattia, comunque legata al cambio delle stagioni.
Al contrario, la malaria instabile è caratterizzata dall’esistenza di un vettore scarsamente antropofilo, con una longevità più bassa, che richiede condizioni ambientali e climatiche favorevoli a un breve periodo annuale di trasmissione; la densità anofelica nel territorio è più elevata perché il vettore è meno efficiente nella capacità di trasmissione dell’infezione malarica e si hanno fluttuazioni nell’incidenza della malattia che possono portare ad improvvise epidemie.
L’insorgere di un’epidemia malarica, inoltre, è causata da uno dei seguenti fattori: aumento della densità anofelica, comparsa di condizioni climatiche che aumentano la durata di vita del vettore, introduzione di una nuova specie di vettore, introduzione di persone affette da malaria e/o immigrazione di massa di soggetti non immuni in una zona malarica.
Nel 1952 il DDT veniva pertanto diversamente impiegato nelle varie zone del territorio, tenendo conto della diversa densità anofelica, poiché alcune zone erano in fase di mantenimento, altre di consolidamento e altre ancora in fase di attacco sull’anofelismo. Al termine della campagna di eradicazione, gli indici splenico e plasmodico si erano notevolmente ridotti in tutte le Provincie. Le denunce di malaria, d’altra parte, confermavano il pieno successo dell’uso del DDT: 113 casi nel 1952, 19 nel 1953 e 15 nel 1954.
Permanevano, comunque, alcuni portatori di gametociti, soprattutto in alcune zone della Sicilia e della Sardegna difficilmente raggiungibili dai servizi medici e che costituirono, negli anni ’55-’60, il serbatoio per piccoli e circoscritti episodi epidemici. L’ultimo focolaio epidemico si ebbe nel 1956 in Sicilia, a Palma di Montechiaro, con 78 casi.
La trasmissione del Plasmodium falciparum fu sicuramente interrotta già durante i primi anni di lotta, tant’è che gli ultimi casi accertati risalgono al 1952. Al contrario, la scomparsa del Plasmodium vivax è stata molto più tardiva e gli ultimi due casi sono stati segnalati nel 1962. Il Plasmodium malariae, caratterizzato da una capacità di sopravvivenza indefinita e dalle possibili recidive, ha rappresentato l’unica riserva autoctona di parassiti malarici e l’ultimo caso fu segnalato nel 1964.
Il Direttore dell’European Regional Office dell’OMS certificò che tutti i casi di malaria verificatisi dopo il 1962 in Italia erano casi indotti di malaria da Plasmodium malariae (prodotti artificialmente mediante trasfusioni, siringhe infette ecc.) o casi importati da altri Paesi, ad eccezione di un caso criptico di Plasmodium malariae e di quattro ricadute di alcune specie di parassiti, nonché di tre casi di malaria da Plasmodium vivax introdotti (trasmessi da zanzara infettatasi su un caso importato, o da importazione di zanzare infette).
Pertanto l’Italia, in data 21 settembre 1970, fu iscritta dall’OMS nei registri ufficiali dei Paesi liberi da malaria.
Il risultato straordinario e immediato della campagna di eradicazione della malaria in Italia, ripetuto con analoghi metodi in Grecia e altri paesi europei, indusse l’OMS a lanciare, nell’ottava Assemblea Mondiale della Sanità, la campagna di eradicazione della malaria nel mondo del 1957-1969 (Squarciatore et al., 1998). Ma il metodo impiegato in Italia non si poteva applicare in realtà molto differenti sotto l’aspetto ambientale, climatico e socio-sanitario. Così la campagna fallì e più tardi si scoprì che il DDT si bioaccumulava nella catena trofica, con gravi danni per l’ambiente.


Pagina aggiornata a febbraio 2018